Rigirai la mia vita fra le mani
per vedere se ci fosse –
il mio spirito posi allo specchio
per metterlo alla prova –
[…]
esaminai le mie fattezze – scompigliai i capelli –
e tesi le fossette, poi aspettai
se quelle, ritornando,
potessero convincermi di me –
E. Dickinson
Venti fotografie e venti autoritratti scritti da ragazze e ragazzi che raccontano le intensità della vita, attraversata da qualsiasi tipo di sofferenza. Nella disponibilità a raccontarsi esiste già un’apertura verso l’altro, mettendo in relazione con il mondo le proprie paure, i propri abissi e gli intensi sogni e desideri vissuti in questa età.
La foto, come rappresentazione ma anche come specchio, permette di essere visti da sé stessi e dagli altri, in un riconoscimento della propria esistenza in vita.
L’idea nasce all’interno di vari servizi dell’Azienda Sanitaria di Reggio Emilia. Quando alcuni di noi operatori sono venuti a conoscenza del tema proposto quest’anno per il Festival di Fotografia Europea, è stato quasi immediato pensare ai giovani che frequentano i presidi sanitari per la cura della salute. Un fotografo professionista entra nell’Azienda Usl per ritrarre giovani ventenni – utenti dei vari servizi, operatori sanitari, familiari, volontari.
allo stesso tempo i protagonisti dei ritratti sono disponibili a fornire di sé un autoritratto narrativo che rimane anonimo. Questa proposta intende offrire allo spettatore una narrazione intima di una generazione.
SOGGETTI COINVOLTI
Azienda AUSL
Associazione SOSTEGNO & ZUCCHERO
Volgere lo sguardo verso l’altro
Il ritratto nell’opera di Enzo Sbarra
Capita di frequente che il tema utilizzato da un’artista sia in realtà solo un pretesto per un’indagine più ampia, che travalica il tema stesso. Si potrebbe dire che questo sia solo un mezzo per compiere un viaggio esplorativo alla ricerca di qualcosa di nuovo. Esiste quindi una grande differenza tra un’esperienza estetica fine a sé stessa, che reitera il già noto, e un’altra che provi ad abbracciare la complessità e le contraddizioni della vita. Come è noto la differenza tra significativo e trascurabile sta nei dettagli.
In questa serie inedita di fotografie Enzo Sbarra (Napoli, 1953) ritorna al tema del ritratto con una semplicità e una radicalità che solo un maestro può permettersi. Sbarra ha compiuto un lungo ed esteso viaggio, sia in senso metaforico che reale, per rendersi capace di realizzare qualcosa che oggi appare molto raro: vedere l’altro.
Non semplicemente nel guardarlo o osservarlo, che equivale sostanzialmente a proiettare sé stessi nell’altro, colonizzandolo e dunque negandolo, bensì proprio nel vederlo. Vedere può essere concepito da un lato come l’atto di portare un dato esterno nel proprio interno, ma allo stesso tempo presuppone il movimento inverso, ovvero lasciare che qualcosa dal proprio interno esca all’esterno. Potremmo dire che in questa misteriosa azione avvenga l’unificazione tra soggetto che guarda e oggetto guardato. L’esercizio magistrale di questo delicato ritmo vitale, contrario a ogni unidirezionalità e violenza, è quello che presuppone questa serie di ritratti.
Enzo Sbarra ha coltivato la visione attraverso un lento e solitario lavoro che parte dagli anni settanta in una città come Napoli, crogiolo incandescente di fantasia e contraddizioni, dove il convenzionale è naturalmente trasceso da un popolo che ha eletto lo straordinario, l’incongruo, l’inconcepibile come linguaggio quotidiano. Dove le polarità di bene e male, giusto e sbagliato, accettabile e inaccettabile, vengono continuamente fuse, assunte e abbandonate senza soluzione di continuità e senza apparente finalità. L’immersione in questa atmosfera vertiginosa e labirintica, dove si impara necessariamente, a proprio rischio e pericolo, a relazionarsi con il caos e le sue oscillazioni, ritengo abbiano sviluppato nell’artista una capacità non ordinaria di accogliere e manifestare queste poderose forze.
Inoltre Sbarra proprio in quei turbolenti anni napoletani ha frequentato e collaborato con gli artisti più significativi a livello internazionale in circolazione, ricevendo un impulso molto importante verso l’elaborazione della sua arte. Incominciando a mettere a fuoco dove e come porsi nella multiformità della vita culturale, cosa coltivare e cosa lasciare andare, sempre con il coraggio e l’ironia che lo contraddistinguono.
Ed è così che oggi noi possiamo specchiarci davanti a questi incantevoli volti, che l’artista in un’osmosi perfetta con i suoi soggetti lascia affiorare da un fondo tenebroso, lumeggiando i giovani tratti con una luce adamantina da primo giorno della creazione, realizzando un incredibile dispositivo atto alla visione. Lui ha volto lo sguardo verso questi Dei umani che a loro volta hanno guardato lui e infine noi. Grazie alla sobria potenza di queste immagini, possiamo vedere noi stessi, fino a comprendere che tra noi, i soggetti e il fotografo non c’è alcun grado di separazione, siamo la stessa identica cosa. Questa magia, questo benefico incantesimo, emana a noi da questa mostra.
Marcello Tedesco